È arrivato al Centro Paraplegici di Ostia nel 1961 per una caduta da un camion mentre caricava la legna. Nella sua lunga carriera di schermidore ha partecipato a cinque edizioni delle Paralimpiadi come atleta, cinque come commissario tecnico e tre come membro della Commissione internazionale. Ha vinto tre ori, quattro argenti e tre bronzi paralimpici. Dal 1962 al 1974 è stato campione del mondo. È scomparso nel 2015
Il ricordo di Vittorio nelle parole delle nipoti Chiara e Serena Loi, quando sono tornate per la prima volta nella casa dello zio dal momento della sua scomparsa
Serena: È la prima volta che rientriamo qui, da quando non c’è più. Benvenuti.
Diceva sempre che il suo incidente è stato un bene, perché da lì ha avuto un’evoluzione nella vita. Da li è diventato qualcuno.
Chiara: Queste sono alcune delle medaglie importanti di nostro zio. Nostro zio è stato per cinque anni campione olimpico, cinque anni è stato commissario tecnico e tre anni è stato un ct della Nazionale di scherma paralimpica. Ma non solo. Nostro zio era, oltre che un campione di scherma, anche un campione della vita. Questa è la maschera che nostro zio ha adoperato fino a pochi giorni prima della sua mancanza. Con questa lui ha vinto un sacco di oro, medaglie e quant’altro. È diventato un campione con questa.
Lui è stato un socio fondatore delle pedane italiane di scherma, è stato colui che le ha disegnate e le ha portate in tutto il mondo. Nessuno credeva nella sua realizzazione, nessuno gli aveva dato fede, nessuno voleva costruirle per lui. Invece alla fine sono state quelle che i ragazzi tutt’oggi utilizzano. Ha scritto i regolamenti italiani e internazionali della scherma, le regole vere e proprie della scherma.
Era una persona sincera, schietta. Era imbattibile, infatti nessuno poteva passarci perché ha vinto per molti e molti anni l’oro, dal ’62 al ’74, e nessuno mai riusciva a soffiargli il posto. Era un guerriero. Cioè lui non aveva nulla, veramente mangiavano pane e acqua e non è una vergogna dirlo, andavano scalzi. Lui diceva sempre che il suo incidente è stato un bene, perché da lì ha avuto un’evoluzione nella vita. Da li è diventato qualcuno.
Serena: Si voleva suicidare, solo che poi ha cominciato a fare palestra lì al CPO; ha cominciato con la scherma, il basket, il nuoto. Si è appassionato allo sport e lo sport gli ha salvato la vita, diciamo.
Chiara: L’ha appagato.
Serena: E come l’ha salvata a lui, lui ha voluto salvarla a tante altre persone che erano arrivate proprio all’apice. Li ha aiutati e ci è riuscito.
Chiara: Io ricordo ancora che a tre-quattro anni mettevo i guanti, la maschera e andavo con zio senza giubbetto a tirare di scherma. Lui era contentissimo, andavamo lui – naturalmente – in carrozzina e io a piedi, gli correvo dietro, arrivavamo all’Ascip e facevamo quelle due-tre ore di allenamento, io molto piccola, la spada più grande di me. Ricordo con il sorriso che zio era molto soddisfatto e orgoglioso di quello che riuscivo a ottenere. […]
Era un maestro di scherma molto pignolo, era severo sicuramente, molto preciso…
Serena: Lui fino all’anno scorso insegnava al CPO, ma lo faceva come volontario: ha portato le sue spade, i suoi caschi, le pedane, tutto quanto e ha insegnato a persone che magari non riuscivano neanche a muovere le braccia inizialmente, invece con un po’ di forza di volontà e un po’ di coraggio sono riuscite anche loro ad andare avanti. Si sono appassionate della scherma e credo che tuttora al CPO facciano questo.
Chiara: I racconti di zio sono tanti, lui aveva in mente le Olimpiadi, diceva sempre: «Io sono cinque volte campione olimpico, noi italiani siamo forti, vinciamo in ogni dove». Con noi diceva: «Non mi batteva nessuno, ero il migliore».
Serena: Non è vero, diceva: «Io andavo per vincere, poi se non vincevo significava che quello era più forte di me. Solo che vincevo». «Forse non ce ne so’ tanti [come me]».
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